Repubblica 2.2.12
Le differenze tra antichi greci e latini
Le due patrie dei romani
di Maurizio Bettini
Quando Romolo fondò Roma, accogliendo nel celebre asylum gente di ogni
provenienza e condizione, non si limitò a scavare un solco destinato a
segnare il perimetro delle mura. Al centro del tracciato aprì infatti
una fossa, affinché ciascuno degli stranieri potesse gettarvi dentro una
zolla della propria terra d'origine. In questo modo il suolo della
futura Città risultò da una vera e propria mistione di terre, quella del
Lazio e quella nativa di ciascun cittadino. Il significato di questo
mito balza agli occhi se solo lo si confronta con il modo in cui
immaginavano le proprie origini gli Ateniesi. Essi raccontavano infatti
che i primi re - Cecrope ed Erittonio - erano venuti su direttamente
dalla terra, e che erano addirittura per metà serpenti, le creature più
terrestri che esistano. Conformemente a ciò gli Ateniesi consideravano
anche se stessi autochthones, ossia (ancora una volta) "venuti su dalla
terra". Il contrasto non potrebbe essere più evidente: se ad Atene è la
terra che produce gli uomini, a Roma sono gli uomini che producono la
terra.
Questi due miti rispecchiano due modi contrapposti di immaginare
l'appartenenza civica. Ad Atene terra e sangue fanno tutt'uno, questa
città di "autoctoni" accetta, come cittadini, solo coloro che sono figli
a loro volta di cittadini ateniesi. Al contrario Roma costituisce una
comunità della quale, indipendentemente dal proprio sangue, si può
acquisire il diritto di far parte - ma sempre (per dir così) portando
con sé una zolla della terra d'origine. In che modo? Ce lo spiega
Cicerone, dialogando con Attico nelle Leggi.
Tutti coloro che vivono nei municipi - diceva - hanno due patrie, una di
natura, l'altra di cittadinanza; una che riguarda il luogo, l'altra il
diritto. Anche lui del resto aveva due patrie: da una parte Arpino, il
municipio da cui proveniva la sua famiglia; dall'altra Roma. Ma come, si
stupiva Attico, dunque non pensava che era Roma la sua patria? Certo,
rispondeva Cicerone, e per la Città egli avrebbe dato anche la vita,
secondo il dovere di ogni buon cittadino. Questo però non gli impediva
di avere anche un'altra patria, non di cittadinanza ma di natura, non di
ius ma di locus. Per comprendere il significato di queste singolari
affermazioni dell'Arpinate (ecco perché lo hanno sempre chiamato così),
bisogna ricordare che dopo la fine delle guerre sociali, all'inizio del
primo secolo a. C., i Romani avevano inaugurato una politica della
cittadinanza che, in qualche modo, traduceva in legge quella famosa
zolla di terra. Ai cittadini veniva infatti attribuita una origo, ossia
un "luogo originario", città, colonia o municipio che fosse. Tale origo
connetteva ciascuno a una comunità i cui appartenenti avevano ricevuto
collettivamente la cittadinanza romana. Questa "patria di luogo", come
la chiamava Cicerone, che si trasmetteva di padre in figlio, poteva
essere in Italia, però anche in Spagna o sulle coste del Mediterraneo.
Di conseguenza gran parte dei cittadini romani erano tali proprio in
quanto e perché avevano una "origine" non romana. Altro non ci si
sarebbe potuti aspettare, del resto, da un popolo che immaginava in
questo modo perfino i propri dèi e il proprio mitico antenato. I Penati
della Città, divinità civiche per eccellenza, i Romani li avevano
infatti collocati non a Roma ma altrove, a Lavinio, dove si sosteneva
che essi avessero (al solito) la propria origo; mentre come capostipite
si erano notoriamente scelti un troiano, Enea, che in quanto tale aveva
un' origo ben lontana dal Lazio. Il fatto è che i cittadini di Roma
avevano fatto una scoperta preziosa: come sentirsi se stessi non a
dispetto dell'essere altri, ma proprio grazie a questo.
Vado più indietro nel tempo. 3 milioni d'anni addietro, arrivarono dall'AFRICA, in PUGLIA, gli JAPIGI e successivamente popolarono il pianeta. Saluti da Salvatore.
RispondiElimina